CENTRO FOTOGRAFIA TORINO

20/02/2020 | Intervista a Stefano Carini | Vicinanze

In occasione del workshop Vicinanze, abbiamo posto alcune domande a Stefano Carini.

 

 

D: Partiamo dall’inizio, come descriveresti il tuo lavoro e a quali esperienze inattese ti ha portato?

 

R: Il mio lavoro è una lunga lista di esperienze totalmente inattese ma ricercate. Volevo partire per un lungo viaggio, in borsa solo taccuini e macchine fotografiche, alla scoperta del mondo, dell’umanità. Volevo raccontare, scrivendo, fotografando, parlando. Avevo un’idea molto romantica del viaggiatore solitario che scopre e racconta. Poi sono partito, il viaggio mi ha portato in luoghi inconsueti, dove ho imparato a osservare, a scrivere, a parlare e ad amare. Ho scoperto che le immagini sono dentro di noi prima di essere fuori, e che noi cerchiamo luoghi, persone ed esperienze per tirarle fuori.

 

Oggi, ho ancora la stessa idea romantica della vita, e forse posso dire di aver capito questo sul mio lavoro: considero il nostro ruolo, quello di chi lavora con le immagini, essere quello di un attento osservatore del mondo e delle dinamiche umane atto all’individuare la sostanza – ovvero la parte essenziale e fondamentale – di ogni cosa osservata, diffidando delle apparenze ed evitando la frettolosa formazione e la conseguente divulgazione di giudizi superficiali. Ciò che è diventato così chiaro a me, nella mia breve esperienza è che il nostro lavoro non dovrebbe mai avere come obiettivo l’immediato, tutt’altro: dovrebbe invece mirare a respingere, a rifiutare con tutte le forze questa “bulimia visiva della società narcisista” che tutto divora, preferendovi la creazione di un lavoro che maturi lentamente e che crei con esso un tempo nel quale sia possibile fermarsi e osservare. Il nostro lavoro è il risultato delle nostre esperienze, del nostro personale incontro con il mondo. È il frutto della nostra percezione, della nostra comprensione. Credo ci sia l’assoluta necessità da parte mia, da parte di gente che come me ha a cuore il futuro dell’immagine, di capire la fugacità e frivolezza dell’epoca in cui viviamo, rimanendo consapevoli che le immagini – ed ancor di più il loro valore – sopravvivranno a questo periodo storico, ed è quindi importante prendersene cura nel migliore dei modi per far sì che ciò che ha significato non si perda nella grande confusione.

 

 

D: In che modo utilizzi il racconto per immagini nel tuo lavoro?

 

R: Il mio lavoro è quello di mettere ordine, organizzare realtà complesse, progetti, pensieri, biografie, eventi. Non è tanto quello di raccontare, anzi: il mio lavoro è costruire strumenti per inspirare, per smuovere, per commuovere, per irritare, per sconvolgere, per spaventare. Insomma, io cerco sempre di usare i lavori per creare una risposta emotiva, psicologica, intellettuale. Il racconto per immagini, come quello per parole, si presta bene a questo scopo.

 

Ed essendo che penso per immagini mi viene naturale parlare per immagini ed ascoltare per immagini. Ragion per cui mi viene bene il racconto per immagini.

 

 

D: In che modo pianifichi i tuoi progetti e i tuoi workshop? Ti piace avere tutto predefinito o preferisci farti guidare dagli eventi in alcune situazioni?

 

R: Di questo parlo nei workshop, quindi mi limito ad un pensiero di base: ho un’idea che viene da un bisogno, da una necessità. Questa necessità la sento quando nel reale vedo sento o provo qualcosa che mi lascia insoddisfatto, arrabbiato, pensieroso, indignato, frustrato. Allora inizio a capire che c’è un buco, un buco da riempire. Scrivo l’idea. Poi la lascio li, a volte per giorni, altre per settimane, alcune per anni. Ma se continuo a pensarci vuol dire che la necessità di porci mano è forte. Quelle idee si sviluppano da se, poco alla volta. E poi si parte con il circo: scrivi, proponi, fai budget, trova spazi, partnersetcetc…

 

Alla fine molte idee rimangono nel cassetto: alcune però vengono fuori, come un drago di fuoco. Devono venire fuori, se no mi mangiano vivo da dentro.

 

 

D: A chi può essere utile seguire Vicinanze?

 

R: Vicinanze è un esperimento. Non ho mai fatto workshop a Torino, che è la mia città natale e da un anno e mezzo la città dove vivo con la mia famiglia. Ciò che ho notato in questi mesi è che a Torino si collabora poco, siamo chiusi, ognuno pensa al suo, e non ci si contamina. “Vicinanze” è un tentativo di riempire un buco che ho percepito. Un laboratorio che vuole creare prossimità, far si che un gruppo di persone si contamini a vicenda, che possano nascere belle collaborazioni, progetti più completi, più approfonditi, magari storie d’amore, un collettivo, chissà.

 

Insomma è un laboratorio per chi vuole essere intimo con l’immagine, per chi non si accontenta della mediocrità e per chi non ha paura.

 

 

D: Negli ultimi 10 anni il racconto per immagini si è notevolmente sviluppato sia come linguaggio (semplificazione dei messaggi, ecc.) che come possibilità tecniche (es. smartphone). Qual’è il tuo parere in merito e come pensi si inserisca “Vicinanze” in questo contesto?

 

R: Cambiano i mezzi, gli strumenti, la capacità di concentrazione delle persone. Il racconto di per se non cambia molto. Ciò su cui mi concentro sempre io è il contenuto, il materiale umano, la storia. Poi viene il modo in cui raccontarla, che ovviamente necessita di alcuni mezzi invece che di altri. Poi ci sono le piattaforme su cui rendere fruibile il lavoro, che ovviamente vanno pensate bene oggi, in quanto ce ne sono molte. Ma alla fine, l’importante è il contenuto, seguito a ruota immediatamente dal modo in cui viene raccontato. Senza pathos anche la tecnologia più avanzata fallisce miserabilmente. Senza emotività, senza partecipazione, senza prossimità appunto, è tutto sterile, mediocre e fondamentalmente inutile.

 

Vicinanze si concentra sul contenuto, sulla nostra percezione dell’altro e del mondo e sulla partecipazione. Il resto è tecnica.