A cura di Pippo Ciorra
Dal 2 al 16 aprile 2017, spazio Lavì! City, Bologna.
“Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio”. Così Pellegrino Artusi conclude l’introduzione al suo intramontabile manuale, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Con le stesse parole Ilaria Ferretti dà inizio al suo Bestiario, una spettacolare sequenza di immagini, citazioni, testi, con la quale l’artista cerca di trovare l’impossibile conciliazione tra due amori paralleli e contrapposti.
Da un lato il “suo” paesaggio, la tradizione, la buona cucina, e tutto l’idillio apparente e la violenza implicita che li rendono possibili (e che già spaccavano il cuore a Giacomelli). Dall’altro l’insostenibile empatia con le vittime di quella invisibile brutalità, in questo caso gli animali destinati al macello, così come in altri suoi lavori erano i luoghi di estrazione martoriati dall’uomo o addirittura gli edifici assaliti dal tempo e dall’incuria. Per tenere insieme due sentimenti così diversi, eppure così presenti in ognuno di noi, Ferretti ha bisogno di un linguaggio fotografico estremo, dove il contesto naturale si nasconde in un’oscurità quasi impenetrabile e il colore dei soggetti diventa bianco e astratto, come fosse quello delle loro “anime”.
Al primo sguardo queste foto fanno venire in mente le luci bruciate dei gruppi di Giacomelli, ma poi lentamente ci si rende conto che il lavoro di Ferretti ha un carattere terribilmente originale e site specific, frutto di un’introspezione feroce che attraversa in un unico percorso l’anima e il genius loci.
Per comprenderlo bisogna concentrarsi soprattutto su quello che l’autrice cancella.
La bellezza del paesaggio offuscata dalla voglia prevalente di “mettere in luce” i soggetti del suo bestiario. Il colore e la fisicità degli animali ritratti, bianchi e immacolati come l’anima che l’artista riconosce in loro. Gli animali poi sono spesso di spalle, non hanno faccia, marciano verso una destinazione persa nel buio eppure resa fin troppo ovvia dalle citazioni dell’Artusi. E infine il [buon] cibo, che aleggia come una promessa e una minaccia nelle parole sottratte all’esperto e nel futuro dei capi di bestiame ma non si vede mai. Ferretti non intende denunciare. Ha empatia ma è allo stesso tempo crudele, toglie i colori al pavone, non consente ai buoi di consolarci brucando il pascolo, racconta l’oca solo come un ammasso ben distribuito attorno al suo gustoso fegato. Isola la “bellezza” dei gruppi, la sospende in un magma scuro e la rende astratta, strappata al terreno.
Oltre che sui suoi animali Ferretti lavora sull’idea stessa di fotografia, ne stressa i procedimenti tradizionali spingendola con consapevolezza in un territorio artistico nuovo, dove immagine fotografica, reportage, pittura, disegno, arte (apparentemente) digitale si confondono e si consolidano a vicenda. Tra gli aspetti più impressionanti di questo progetto c’è la capacità della fotografa di “mettere in posa” (inconscia) gli animali: “attraversano” l’inquadratura come se volessero in qualche modo sfuggire al buio che li opprime, si guardano intorno in cerca di uno spiraglio, ma soprattutto quando si tratta di soggetti singoli sembrano dialogare in modo terribilmente intenso con lo sguardo fotografico. Da questo dialogo nascono inquadrature strazianti e memorabili, che potrebbero inquietarci un poco alla nostra prossima visita al ristorante, o mentre sfogliamo il più classico dei manuali di cucina.
Pippo Ciorra
gen ’16